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Fiumi di parole: intervista ai Jalisse

In occasione della 71esima edizione del
Festival di Sanremo pubblichiamo l’intervista che
Liborio Conca ha fatto ai JALISSE – contenuta nel libro “Sono disperato, Pippo!“, pubblicato a corredo del progetto This Is Not SANREMO.

di Liborio Conca
Illustrazione dei Jalisse di Silvia Rocchi
Libro SONO DISPERATO, PIPPO

Fiumi di parole

Un pomeriggio di gennaio ho telefonato ai Jalisse, Fabio Ricci e Alessandra Drusian, e ci ho parlato per una mezz’oretta. Mentirei se dicessi che non ero emozionato. A questo punto vale la pena di raccontare un aneddoto: quando li ho chiamati per la prima volta, ho sbagliato numero. Mi hanno risposto due tizi, un’altra coppia – so che sembra una storia inventata, ma non è così, credetemi – dicendomi che loro non avevano intenzione di rilasciare interviste. Non avevano l’accento svedese. Deluso, ho riattaccato. Quando ho capito che ero stato così stupido da cambiare numero, l’ho raccontato ai veri Jalisse, accordandoci per un nuovo orario. «Ho pensato di dirti che avevi sbagliato numero», ha esordito così Alessandra al nuovo contatto telefonico, mentre Fabio sghignazzava non troppo lontano. Preso giustamente per i fondelli dai Jalisse; mettiamola così, ne sono onorato.

Per i Jalisse esiste un prima e un dopo, e nel loro caso lo spartiacque è il 1997, l’anno della loro vittoria al Festival di Sanremo con Fiumi di parole. Conduce Mike Bongiorno insieme a Valeria Marini e con Piero Chiambretti vestito da angelo e appeso al soffitto per tutte le serate. Quella canzone è rimasta nella storia, ma la storia dei Jalisse a Sanremo si è chiusa lì, almeno per il momento. Fuori dal Festival, i Jalisse hanno proseguito una carriera ricca di soddisfazioni: si sono esibiti in tour all’Italia e all’estero, hanno suonato a Mosca e persino in Kazakistan. Da poco hanno inciso un nuovo pezzo insieme a un gruppo metal.

Jalisse – Fiumi di parole (Sanremo 1997) Illustrazione di Silvia Rocchi

 

«L’estate scorsa siamo riusciti a fare alcune serate, alcuni concerti», mi dice Alessandra. «Abbiamo preso parte a un evento in memoria di Fabrizio Frizzi. C’erano anche Ivan Cattaneo e Viola Valentino. Ci manca il contatto con il pubblico, la relazione fisica: alla fine dei nostri live ci fermiamo sempre a parlare con i nostri fan. Questa distanza, questa assenza di “tocco” è imbarazzante, ci crea un forte disagio, anche se comprendiamo perfettamente le ragioni di queste regole».

Gli chiedo come è iniziata la loro storia; dopo la rottura di Al Bano e Romina Power, in fondo restano l’ultima coppia autentica nella musica italiana. «Ricordo ancora oggi quando ho incontrato Fabio per la prima volta, a Roma: era l’autore di alcune canzoni che avrei dovuto cantare. Era una giornata di agosto, caldissima, lui aveva appena staccato dalla tavola calda dove lavorava con suo padre. Pantalone bianco, camicia nera, capelli lunghi… ma la scintilla arrivò due anni dopo, quando tornai a Roma per una trasmissione televisiva: da lì è cominciata la nostra avventura, ci trovammo su tutto, non ci siamo più lasciati», dice Alessandra.

E Fabio, le cui origini romane sono evidenti anche dall’accento: «Quando Alessandra si sistemò definitivamente a Roma iniziammo il nostro progetto comune, sia come coppia che nella vita. Agli inizi cercavo di promuovere Alessandra come cantante solista: facevo il giro delle case discografiche, ma non si muoveva niente e allora abbiamo iniziato con i Jalisse. Suonavamo all’apertura delle discoteche, giravamo per i locali di Roma riarrangiando alcune classici del passato in chiave dance. Qualche tempo dopo abbiamo iniziato a lavorare mettendo nel mirino una ribalta come Sanremo».

«Adoravo Pink Floyd, Beatles e Pooh. Crescendo scoprii la new wave e il post punk, gli Ultravox e certi lavori di David Bowie e Brian Eno, la prima musica elettronica.»

Fabio nasce come cantautore. «Già a tredici anni ero alle prese con la tastiera. La tastiera Bontempi, quella che ai tempi regalavano per Natale: pochi mesi dopo implorai mio padre perché mi comprasse un sintetizzatore, e poi iniziai a prendere lezioni di musica. Provavo nelle cantine, con i miei amici, e poi andavamo a suonare alle feste, dove ero molto richiesto. Adoravo Pink Floyd, Beatles e Pooh. Crescendo scoprii la new wave e il post punk, gli Ultravox e certi lavori di David Bowie e Brian Eno, la prima musica elettronica. Nel 1986 feci uscire il primo disco con il mio gruppo, i Vox Populi: la canzone si chiamava I’m so bad e andò molto bene».

Alessandra, invece, si è sempre concentrata sulla musica italiana. «Amavo Anna Oxa e soprattutto Loredana Bertè, portavo le sue canzoni ai concorsi a cui partecipavo. Nonostante la mia voce pulita ho un’anima rockettara dentro. Ho iniziato a cantare quasi per caso: una mia zia compilò una di quelle cartoline che si trovavano nel Radiocorriere tv e mi ritrovai a partecipare alla trasmissione Gran Premio, condotta da Pippo Baudo. Cantai Gloria di Umberto Tozzi, diventò il mio cavallo di battaglia».

Gli chiedo di Sanremo, la loro delizia e in seguito anche croce, perché se tutti associamo i Jalisse a Fiumi di parole è anche vero che da allora non sono riusciti più a tornare sul palco dell’Ariston. «Il primo contatto con Sanremo fu nel novembre del 1995, quando partecipammo alle selezioni per le “Nuove Proposte”», racconta Alessandra. «C’era tutto un regolamento molto complicato, stabilito da Baudo: passammo in dodici e ci esibimmo all’Ariston nel 1996 con Liberami; arrivammo sesti, e dunque ottenemmo un accesso di diritto all’edizione successiva, sempre tra le Nuove Proposte; se avessimo superato una nuova eliminatoria avremmo fatto il salto nei “Campioni”. Quando Baudo mi ritrovò al Festival del ’95, dopo l’esperienza di Gran Premio, ero molto cambiata nel look. Ricordo che mi mise una mano sulla spalla e mi disse: Bentornata, Drusian».

Aggiunge Fabio: «Nel 1997 arrivammo a Sanremo con un obiettivo: passare nella categoria dei Campioni, a fronte di un regolamento piuttosto cervellotico che contemplava questa possibilità. Ce l’avremmo fatta se fossimo arrivati nei primi sei delle Nuove Proposte. Era un percorso accidentato, ma avevamo questa missione. Ed eravamo soli: eravamo produttori, arrangiatori, discografici e infine esecutori della nostra musica. Quando arrivammo a Sanremo notammo che mancavano persino i nostri manifesti: andai di persona all’ufficio del Comune, pagai qualcosa tipo centocinquantamila lire per il permesso e attaccai una cinquantina di manifesti in città. Ci sentivamo un po’ come degli indiani armati di sola cerbottana, in un contesto dove giravano un sacco di caterpillar. Il martedì, quando cantammo Fiumi di parole, l’orchestra scoppiò: fu una serata fantastica. Suonarono tutti gli elementi. Anche i triangoli suonarono quella sera. E poi c’era Alessandra, arrivò la bellezza di Alessandra, la sua voce, la presenza scenica. Quella serata ottenemmo così tanti voti – il meccanismo funzionava così – che fu impossibile raggiungerci nelle serate successive. E d’incanto cominciarono a comparire i giornalisti che ci cercavano».

All’Ariston, sistemati nel cuore canoro della nazione, i Jalisse riuscirono a scalare il successo con una parabola fulminea. Ricorda Fabio: «L’idea di vincere non ci sfiorava. Volevamo fare una bella figura, questo sì. Era un sogno poter gareggiare con Patty Pravo, parlare con Massimo Ranieri, con personaggi che fino a pochi giorni prima conoscevamo solo attraverso la televisione. Eravamo come due bambini in un luna park, con la responsabilità di portare avanti il nostro percorso. Giravamo a bordo di una Cinquecento, e metaforicamente ci siamo rimasti ancora adesso: guardiamo la musica con lo stesso sguardo di allora, sognante e di grande amore».

Patty Pravo – Per una bambola (Sanremo 1984) Illustrazione di Grazia Sacchi

Alessandra, invece, ha una storia personale da raccontare. «Sanremo è un frullatore, e questo si sa. La settimana del Festival soffrivo di laringotracheite: riuscivo a cantare per quei cinque minuti, ma appena scendevo dal palco esplodeva la tosse. Alla fine, dopo il Festival non sono riuscita a cantare più per un mese. Il livello di stress era altissimo: è come concentrare il lavoro di un anno in una settimana. A un certo punto ci si misero anche le scarpe. Avevo un abito bellissimo, sfumato con elementi di pizzo; il lunedì ci mettemmo a girare per negozi, cercando di trovare il paio di scarpe adatte. Ne trovai due: una col tacco, l’altra bassa; per non apparire più alta di Fabio – abbiamo la stessa altezza – scelsi le seconde, solo che di numero facevano 39 e io porto il 41. E insomma andò a finire che cantai Fiumi di parole, la canzone che vinse, con la laringotracheite e delle scarpe che mi stavano molto strette. Scarpe che conservo ancora ora, ovviamente».

Nel 1996, al loro debutto, il Festival era presentato da Pippo Baudo; l’anno dopo, quello del trionfo con Fiumi di parole, al timone della baracca c’era Mike Bongiorno. Mi dice Fabio: «Pippo lo sentivi entrare. Quando arrivava lo notavi subito, aveva una presenza di grande carisma; è anche un musicista, e poi era il suo Sanremo, lo aveva fatto lui in tutto, dal regolamento al cast. Mike era diverso: arrivò a Sanremo “in prestito” da Mediaset, fece Sanremo e tornò a Retequattro; il Festival non era una creatura sua, a differenza di Pippo. Due professionisti, molto diversi tra loro».

Il 1997 da sogno dei Jalisse proseguì a maggio, quando parteciparono all’Eurovision in rappresentanza dell’Italia. Sulla loro spedizione aleggia tutt’ora un’aura di mistero. Il giornalista Gigi Vesigna, già direttore di Tv Sorrisi e canzoni, ha parlato di vero e proprio complotto ai danni del duo.

«Sono ventiquattro anni che cerchiamo di portare una nuova canzone al Festival, ma non ci hanno mai più preso. Ma non demordiamo: abbiamo già pronta la canzone per il venticinquesimo tentativo»

Ricorda Fabio: «Arrivammo a Dublino due mesi dopo Sanremo. Erano anni che l’Italia non prendeva parte all’Eurovision, e partivamo da favoriti. Fummo tra i pochissimi a esibirci in overdubbing, suonando su poche sequenze di base e con l’orchestra. Anche in Irlanda eravamo da soli, con la nostra piccola etichetta indipendente e una canzone che girava ormai in tutta Europa. Il rapporto con il pubblico fu eccellente. Arrivammo quarti, ma qualcosa andò storto. Ancora adesso non sappiamo spiegarci cosa accadde».

Secondo Vesigna, «quando a viale Mazzini capirono che i Jalisse potevano farcela, in accordo con altri Paesi gli fecero mancare i voti per paura che vincessero e così la Rai fosse costretta ad organizzare l’anno dopo».

Di tutto questo intrigo internazionale Fabio e Alessandra non sanno più che farsene: «Sono ventiquattro anni che cerchiamo di portare una nuova canzone al Festival, ma non ci hanno mai più preso. Ma non demordiamo: abbiamo già pronta la canzone per il venticinquesimo tentativo». E nuovi manifesti da appendere in riviera.


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