Un ritratto di Courtney Love a venticinque anni da Live Through This, l’album capolavoro delle Hole, tra Roma e Seattle.
di Liborio Conca
(foto copertina: Dora Handel/Corbis/courtesy of HBO)
Qualche giorno fa quando era ancora semiautunno e gironzolavamo a sera bighellonando tra amici schivando le pozzanghere al Pigneto, perso in altri pensieri, a un certo punto afferro un concetto, una frase buttata lì tra un bla bla e l’altro. «Pare che Courtney Love farà un secret show qui a Roma», something like that. Drizzo le orecchie, provo a raccogliere qualche informazione. Dove, quando, perché. Soprattutto come, come fare ad andarci.
Poi è finita che i miei amici sono andati al Primavera a Barcellona, e che probabilmente Courtney Love è rimasta da qualche parte negli Stati Uniti o chissà dove. Dico probabilmente perché nel frattempo ho preso l’influenza, e non ho potuto verificare se Courtney sia venuta qui o meno. E neanche voglio indagare, preferisco lasciare uno spazio vuoto nella mente dove poter immaginare quello che mi pare.
All’Excelsior
Il fatto è che per Courtney Roma non è una città qualunque, perlomeno dal 1994. Il due marzo di quell’anno ci era arrivata per trascorrere qualche giorno insieme al marito Kurt Cobain, in pausa tra una data e l’altra del tour europeo dei Nirvana freschi di In Utero. Presero una suite all’Excelsior in via Veneto. Kurt, che aveva già girato per la città con il chitarrista Pat Smear, le regala rose rosse, rosari, diamanti, candele rubate da San Pietro e «un pezzo di Colosseo», ricorderà Courtney. Nelle intenzioni doveva essere un tempo utile a stare insieme e aiutarsi, ad aiutare soprattutto Kurt. Con loro c’era anche la piccola Frances Bean.
La sera del tre Courtney e Kurt ordinano una cena in camera, e sopra la cena bevono champagne. Kurt non sta bene, ha ancora i sintomi dell’influenza che gli ha fatto annullare un paio di date in Germania – oltre che i suoi dolori cronici, alla gola e allo stomaco – e assume il Roypnol, un potente tranquillante. Anche Courtney prende pillole e calmanti. Verso le cinque del mattino lei si sveglia e trova Kurt sul pavimento accanto al letto, privo di sensi. Disperata e non esattamente in formissima anche lei, chiama la reception dell’Excelsior che fa arrivare un’ambulanza dal Policlinico Umberto I, dove portano Kurt.
Dopo i primi soccorsi, Kurt viene trasferito in un posto che si chiama Rome American Hospital, una clinica privata oltre Tor Sapienza, tra la Collatina e la Prenestina, ai margini della metropoli. Lentamente, dopo essere stato alle soglie della morte, Kurt si riprende. Tornato cosciente, la sua prima richiesta è un milk shake alla fragola – mi chiedo quale fosse il McDonald più vicino. La stampa di tutto il mondo rimette nel cassetto le pratiche che aveva già avviato per iscrivere Kurt Cobain al club di Jimi, Janis e Jim. Per il momento. Mentre Kurt era sotto osservazione all’American Hospital, Courtney aveva preso un taxi per andare a pregare in Vaticano con i rosari che Kurt le aveva regalato, e comprandone altri ancora.
Il 12 marzo la coppia torna a Seattle. La verità, in quel momento, la conoscono in pochi. Quello di via Veneto non era stato un incidente: all’Excelsior Cobain aveva tentato di uccidersi. In un biglietto sulla carta intestata dell’hotel scrisse «Il dottor Baker dice che, come Amleto, devo scegliere tra la vita e la morte. Sto scegliendo la morte». Un mese dopo, la scelta sarà definitivamente compiuta.
There’s a hole that pierces right through me
Il dieci aprile, al Seattle Center, Courtney Love legge ai fan l’ultima lettera di Kurt. Migliaia di persone ascoltano la voce spezzata di Courtney che si fa largo su una distesa di candele accese. «Non so veramente cosa dire. Mi sento come vi sentite voi», quasi si giustifica – una cospicua fetta di fan la ritiene responsabile, in qualche modo. Quindi comincia a leggere la lettera, avviando un contrappunto vocale con quello che ha lasciato scritto Kurt. Gli parla, come se lui potesse ascoltarlo, come se lui fosse lì. Gli dà dello stronzo. Quando arriva al punto in cui Kurt scrive «Per esempio quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento alzarsi forte l’urlo del pubblico, non provo quello che provava Freddie Mercury, che si sentiva inebriato dalla folla, ne traeva energia e io l’ho sempre ammirato e invidiato per questo», allora Courtney, incazzata, fermando la lettura: Well Kurt so fuck what? Then don’t be a rock star, you ass.
Più avanti, Kurt: «C’è del buono in ognuno di noi e credo di amare troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste». E lei: So why you didn’t you just fuckin stay? Oh shut up, bastard. Why don’t you just enjoy it? I don’t know. La voce è interrotta dalle lacrime. Due giorni dopo la veglia di Seattle esce Live Through This, l’album capolavoro delle Hole.
Nelle interviste del tempo, Courtney raccontava che il nome Hole lo avrebbe tratto dalla Medea di Euripide, «There’s a hole that pierces right through me», C’è un buco che mi trafigge, e anche se nel testo originale della tragedia non c’è traccia della citazione così come la riporta lei, è una di quelle occasioni in cui vien da dire Okay, tutto sommato è fico. A tre anni da Pretty On The Inside, l’album di debutto, Live Through This stempera la rabbia riot della primissima Courtney in una forma che riesce a comprendere al suo interno più sfumature – varie tonalità di luce, rabbia e amore, filtrate in canzoni a tratti superbe. L’uscita dell’album era stata anticipata dal singolo Miss World, uscito a fine marzo, quando Kurt era ancora in vita. La canzone attacca con un dolcissimo giro di chitarra, una melassa ironica. Il video inizia con lei Courtney che si incipria, mentre canta con il suo tono già inconfondibile, graffiato e graffiante, dissonante. La strofa – «I’m Miss World / Watch me break and watch me burn / No one is listening, my friends», con quel burn pronunciato in una maniera che lascia intravedere un fuoco reale sul punto di ardere… burn, una parola che aveva usato anche Kurt nella lettera di addio, citando il Neil Young di Hey Hey My My, «It’s Better to Burn Out Than to Fade Away» – la strofa, dicevo, prepara la rabbia concentrata nel ritornello, «I’ve made my bed, I’ll lie in it / I’ve made my bed, I’ll die in it».
Per il singolo successivo passa la primavera, e poi tutta l’estate. È novembre inoltrato quando esce Doll Parts, una oscura ballata grunge che parla di amore, sofferenza e vene. Ma siamo ancora nel 1994, e la morte non ha smesso di tormentare Courtney. Il sedici giugno la bassista delle Hole, Kristen Marie Pfaff, era stata ritrovata senza vita nella sua vasca da bagno – overdose di eroina. Per rimpiazzarla, il gruppo assume per qualche tempo Jennifer Finch delle L7, che compare nel video di Doll Parts assieme al chitarrista Eric Erlandson e alla batterista Patty Schemel. Courtney ha detto che Doll Parts era stata scritta per Kurt, nei primi tempi della loro frequentazione. I due non erano partiti con il piede giusto. «Kurt Cobain e Courtney Love si fissarono per la prima volta negli occhi alle undici di sera di venerdì 12 gennaio 1990, e dopo trenta secondi si misero a litigare sul pavimento», ricorda Charles R. Cross nella biografia di Kurt Cobain Heavier Than Heaven – e anche se esistono versioni differenti sul primissimo incontro tra i due, questa è la più bella. Per farsi perdonare, o più probabilmente cercando un pretesto per flirtare, Courtney mandò a Kurt una scatola a forma di cuore (sì, quella scatola a forma di cuore) con all’interno delle conchiglie laccate, tre rose secche, una minuscola tazza da tè, e una bambola di porcellana. Doll parts era pronta già nel 1991.
Tra zaffate di tetraggine, nel video non mancano le bambole di porcellana, ma la vera doll, pallida e bionda e sgualcita è lei, Courtney. «And someday, you will ache like I ache», la frase che canta fino a urlare, nel finale. Nel tempo vi sarà capitato di leggere quella versione dei fatti di sicuro censurabile e machista per cui in Live Through This c’era lo zampino di Kurt Cobain. Detta nella maniera più spiccia possibile, l’avrebbe scritto lui. La verità, ovviamente, è che è tutto farina del sacco di Courtney Love e della sua band. «Ero molto competitiva con Kurt e volevo più melodia. Ma questo già prima di Live Through This», raccontò anni dopo Courtney alla rivista “Spin”, e ancora, «volevo essere migliore di Kurt e mi offende sempre quando la gente dice che lui ha scritto Live Through This; sarei molto orgogliosa se avesse scritto qualcosa, ma semplicemente non glielo avrei permesso. Sarebbe stato troppo ‘Yoko’ per me».
In verità una traccia reale di Kurt, dentro Live Through This, c’è. È la sua voce, prestata in Asking for it e Softer, Softest, sullo sfondo, mentre Courtney alza la sua voce, ancora.
When I Wake Up In My Makeup
Anche Violet, il terzo singolo di Live Through This, era nato nei primissimi anni Novanta. Parla della fine di una relazione di Courtney – le chiamano breakup song – con un certo cantautore avvezzo a malinconie, capricci bambineschi e sogni di notti dove l’impossibile diventa possibile. L’anno è il 1991, i Nirvana stanno per scoppiare con Nevermind e Courtney usciva con Billy Corgan. È lei a raccontare di quella volta quando Billy non volle pagarle il biglietto aereo per rientrare assieme da Roksilde, lasciandola su un più economico traghetto: secondo Courtney, «in quel momento ha cominciato a perdermi». Tanto più se sullo stesso traghetto c’erano i Nirvana.
Billy e Courtney non si lasciarono bene, e Violet dà conto di quella rottura. Immaginate cosa può essere Courtney Love quando è infuriata; nel 1995 non le era ancora passata. Le Hole si stavano esibendo allo show Later… With Jools Holland per la BBC. Holland le annuncia. Prima di iniziare a suonare Violet, Courtney lancia un Hey!, va verso la batteria dove spegne la sigaretta che stava fumando, quindi torna al microfono e dice: «This song’s about a jerk, I hexed him and now he’s losing his hair» (Questa canzone parla di un coglione. L’ho maledetto, e adesso sta perdendo i capelli). Sullo sfondo si intravede la nuova bassista delle Hole, Melissa Auf der Maur, che ridacchia. Quindi iniziano a suonare.
https://youtu.be/hBmNUsksBpc
Inutile dire chi è il coglione che in quel 1995 stava effettivamente perdendo i capelli: basta guardare prima il video di Bullet With Butterfly Wings e poi quello di Zero. Ma nella vita, a volte, i margini delle cose si intravedono soltanto, e Courtney è diventata quello che è – un personaggio grandioso, scomodo, ingombrante e dal carisma ipnotico – perché è una regina capace di stare dentro e fuori i margini, e il rapporto con Billy Corgan è una piccola saga di amore/odio che attraversa gli anni. Celebrity Skin, il nuovo album delle Hole a distanza di cinque anni da Live Through This, è un concentrato del loro modo di viversi.
È il 1997 e i Nirvana e il Seattle Sound sono così lontani che da lì a poco verranno fuori band con il prefisso nu prima della parola grunge. Gli Smashing Pumpkins hanno impiegato anni per digerire la magniloquenza creativa di Mellon Collie And The Infinite Sadness, perso per strada il tastierista Jonathan Melvoin, morto anche lui di overdose da eroina, e cacciato il batterista Jimmy Chamberlin, troppo impegnato a farsi. Courtney Love aveva impiegato praticamente tutto il 1996 recitando per il cinema: Larry Flint, Feeling Minnesota e Basquiat lasciano trasparire tutto il suo talento di attrice. Quando tornò in studio con le Hole per il nuovo album Courtney si sentiva pigra e priva di idee, distratta com’era da Hollywood. «Ero a un punto morto, non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto», e così chiama Billy, sotterrando un’ascia che verrà rialzata e ri-sotterrata ancora altre volte. Corgan compare nei crediti di cinque canzoni di Celebrity Skin, l’album di maggior successo commerciale delle Hole, uscito a settembre 1998, tre mesi dopo Adore degli Smashing Pumpkins. Suo è l’arrangiamento di Malibu, un’elegante ballad assai programmata dalle radio, e suo il riff-killer del primo singolo, Celebrity Skin. Il tocco di Billy compare anche dietro Dying, un brano lento dal suono delicato, avvolgente. «È divertente avere un rivale. Quando mi siedo con Billy e gli porto un arrangiamento e lui lo migliora, mi incazzo e mi sento da schifo perché lo ha fatto, così dopo smonto tutto perché non c’è alcuna possibilità che gliela dia vinta», ha raccontato Courtney, e la immagino ghignare con gli occhi incendiari.
Le punzecchiature tra i due sono ormai leggendarie: Corgan non prese bene il modo in cui Courtney gestì il suo lavoro per Celebrity Skin; poi però tornò a lavorare con lei per Nobody’s Daughter, l’album uscito nel 2010 a nome Hole pur avendo della formazione originale solo Courtney. E dopo ancora bisticci, scambio di accuse via tweet, e poi ancora riavvicinamenti e ancora liti. Tutti i testi di Celebrity Skin sono di Courtney, che per le liriche pesca riferimenti da T.S. Eliot, Shakespeare e dal poeta e pittore inglese Dante Rossetti. Gli anni Novanta questa volta sono davvero agli sgoccioli e Celebrity Skin è di fatto il definitivo congedo delle Hole dal decennio che ha visto nascere e letteralmente morire nel volgere di pochissimo tempo una scena di cui Courtney è stata l’indubbia regina.
Questo è il momento di brillare
Courtney ha inseguito il successo praticamente da bambina, quando scriveva lettere a Andy Warhol, che poi la notò in Sid & Nancy e Straight to Hell e la prese per un episodio di Andy’s Warhol Fifteen Minutes, un programma trasmesso da MTV negli anni Ottanta. Courtney ha annunciato più volte un’autobiografia che non è ancora uscita, in cui racconterà «tutto», la sua versione della storia; intanto, ha licenziato il primo ghostwriter che aveva assunto. Courtney ha litigato praticamente con tutti, riappacificandosi poi con tutti. Nel video di Mono, il singolo dal suo disco solista del 2004 America’s Sweetheart – did you miss me? did you miss me?, canta, e la domanda è retorica – Courtney è in fuga e battaglia contro tutti, protetta da un drappello di bellissime bambine armate di motosega. Ma c’è una persona che da lei ha ricevuto solo amore, quell’amore che Courtney Michelle Love porta nel suo stesso nome, e quella persona è Frances Bean Cobain, la figlia avuta da Kurt, Frances dagli incredibili occhi verdi.
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A marzo scorso Melissa Auf der Maur ha scritto una lettera alla rivista “Kerrang!”, per i venticinque anni di Live Through This. «Come insider e outsider – non ho suonato nel disco, ma ho sostenuto l’uscita e suonato nel tour mondiale – posso vantarmi del fatto che è un regalo per le donne di tutte le generazioni, qualcosa di importante da scoprire oggi e nel futuro. Quest’anno ricorre anche, come saprete, il venticinquesimo anniversario della morte di Kurt Cobain. Come donna che ha passato abbastanza tempo nelle Hole, e la cui vita adulta è stata completamente dedicata alla musica e al potere che le storie e i suoni hanno di unirci, confesso che non resterò a guardare la morte di Kurt mettere in ombra la vita e l’arte delle donne che ha lasciato dietro di sé. È un miracolo che Courtney sia ancora viva (e ho appena preso il tè con lei, è totalmente viva e impegnata! Pronta per ripartire!) e la loro figlia, Frances Bean, sta crescendo e diventando una donna meravigliosa con l’anima piena di musica e sogni. Questo è il loro momento di brillare, in onore di tutte quelle donne che sono state lasciate indietro nel mondo della musica e non solo».
Lei, Courtney, non ha mai smesso di farlo.
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